Print Icon
 
https://campaign-image.eu/zohocampaigns/28716000361365004_zc_v13_header_factchecking_migrazioni.jpg
   
   

CLIMA, L’ESTATE PIÙ CALDA 

  • Quest’anno le temperature nel Mediterraneo hanno raggiunto i livelli massimi mai registrati. Il mare, in particolare, si sta scaldando a un ritmo che è oltre doppio rispetto al riscaldamento globale (+3°C vs +1,2°C rispetto alla media delle temperature preindustriali). Questo significa più rischi per tutti, in Europa e in Italia. 

  • Le ondate di calore si fanno sempre più minacciose. L’anno scorso, tra giugno e settembre le morti attribuibili al caldo sono state oltre 60.000 in Europa, di cui ben 18.000 nella sola Italia: il 30% del totale, anche se gli italiani sono solo il 12% della popolazione europea. 
  • Dal 1980 a oggi, in Europa, gli eventi climatici avversi hanno causato almeno 560 miliardi di euro di danni. In Italia, ciascun cittadino ha perso 1.500 euro a causa di danni collegati ad alluvioni, uragani, frane, ondate di calore o di freddo. Si tratta di un costo che, seppur lentamente, tende a salire nel tempo, e talvolta raggiunge livelli altissimi. Nel 2021, per esempio, i danni registrati ammontarono a 57 miliardi: oltre 4 volte la media degli ultimi quarant’anni. 
  • Talvolta è lo stesso cambiamento climatico a complicare la lotta al cambiamento climatico. A causa di uno dei periodi di peggiore siccità della storia recente, dall’anno scorso l’Italia sta attraversando la più grave crisi della generazione idroelettrica di sempre, con un calo del 37% rispetto ai dieci anni precedenti e che, nel 2023, potrebbe attestarsi su un –28%. 
  • Con il crescere delle divisioni internazionali e delle tensioni tra la Cina e l’Occidente, la cooperazione sul clima è sempre più a rischio. Fortunatamente, gli sforzi dei singoli Paesi e regioni del mondo per diventare leader tecnologici della transizione verde porta a risultati positivi. Prova ne siano sia il moltiplicarsi degli impegni per raggiungere “net zero” entro il 2050 o 2060, sia la conseguente accelerazione senza precedenti nell’installazione di fonti rinnovabili. 

Sempre più vicino, più tangibile, più spaventoso. Nelle ultime settimane, il cambiamento climatico ha fatto sentire i propri effetti più gravi sulle società umane, alternando ondate di calore e siccità a eventi metereologici estremi e allagamenti. E, nonostante la popolazione mondiale fosse stata avvisata da tempo in maniera incontrovertibile, siamo ancora lontani dal comprendere appieno la portata di questo fenomeno. Che, inevitabilmente, avrà conseguenze economiche, politiche e umane devastanti a livello globale. 

Eppure i numeri parlano chiaro. Il mese di luglio e, in particolare, la sua prima settimana sono stati emblematici. Secondo stime statunitensi (non ancora ufficiali), lunedì 3 luglio 2023 è stato il giorno in cui la temperatura media del pianeta ha raggiunto il picco più alto mai registrato (17,01°C). Un dato storico, ma di breve durata. Il record è stato infatti superato il giorno successivo (17,18°C) e, di nuovo, giovedì 6 luglio (17,23°C). Tra i motivi alla base di questo risultato figura El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che, a intervalli irregolari, riscalda le acque del Pacifico. Tuttavia, i cambiamenti climatici dovuti ad attività umane sono una componente fondamentale e innegabile di questo campanello d’allarme. 

In questo scenario globale sconfortante, anche l’Italia e l’intera regione mediterranea sono esposte a serie minacce climatiche. Prova ne siano i dati sull’aumento della temperatura media della superficie del Mediterraneo, che nella seconda metà di luglio 2023 ha superato i 28°C: un record senza precedenti, ma soprattutto un riscaldamento più che doppio (+3°C) rispetto all’innalzamento delle temperature globali. Un dato allarmante sia per i danni all’ecosistema marino, sia per la formazione di eventi meteorologici estremi. Come l’ondata di caldo che ha colpito la regione nell’estate 2023, arrivata dopo che l’anno scorso l’Europa aveva già attraversato una delle ondate di calore più gravi degli ultimi decenni.

     

Un cambiamento di tale portata non può che causare danni crescenti. In primis, in termini di vite umane. Calcolare l’esatto ammontare numerico dei decessi causati dal cambiamento climatico non è facile. Ci sono, nondimeno, delle certezze da cui partire: per esempio sulle ondate di calore. In questo senso, i Paesi più vulnerabili sono quelli a latitudini più vicine all’equatore e con un’età media più alta. Entrambi questi fattori indicano che l’Italia è uno degli stati europei in cui il riscaldamento globale rischia di provocare un maggiore numero di morti. 

Questa intuizione è confermata da uno studio che indaga l’eccesso di mortalità in 35 nazioni europee nell’estate 2022, quella che fino a un anno fa era la più calda di sempre. Secondo i risultati, oltre 61,000 morti in tutta Europa nel periodo estivo sarebbero da attribuire all’eccezionale ondata di calore. Ciò che è ancora più preoccupante è che l’Italia si posizioni in cima alla classifica europea sia in termini assoluti (con circa 18.000 vittime) sia in termini relativi (con un tasso di mortalità di 295 persone su un milione di abitanti). Certo, si tratta di stime probabilistiche, con incertezze non indifferenti. Stime che, tuttavia, dipingono un quadro inquietante. Senza contare che la continua crescita delle temperature, abbinata al prevedibile invecchiamento della popolazione, rischia di portare a una letalità ancora più elevata in futuro.

     

Le morti per caldo sono solo uno dei numerosi motivi di preoccupazione. Un altro aspetto critico riguarda i danni economici dei cambiamenti climatici, che iniziano a farsi sempre più reali e concreti. Anche in questo caso, nonostante quantificare i costi sia difficile, è innegabile che la tendenza negli ultimi decenni indichi un continuo aumento dei costi economici dovuti a fenomeni climatici. 

Uno studio della European Environmental Agency (EEA) fa il punto su quello che sappiamo a oggi. Secondo la EEA, tra il 1980 e il 2021 le perdite economiche collegate a eventi climatici e meteorologici estremi nei Paesi UE ammontano a 560 miliardi di euro. Sono quarantun anni, ma oltre un decimo di queste perdite (circa 57 miliardi) è avvenuto nel solo 2021. E il confronto tra i diversi decenni indica un trend in lenta ma evidente crescita: le perdite annuali medie ammontano a 10 miliardi per il periodo 1981-1990, salgono poi a 11 miliardi nel 1991-2000 e a 13 miliardi nel 2001-2010, per poi toccare una media annua di oltre 15 miliardi nel decennio 2011-2020. 

Attenzione: la variabilità degli eventi estremi è comunque elevatissima. Per esempio, nel 2020 le perdite stimate erano nell’ordine dei 10-15 miliardi di euro, oltre quattro volte più piccole di quelle dell’anno successivo. Più in generale, l’1% degli eventi estremi più rilevanti ha causato ben il 26% delle perdite totali. A fare la parte del leone (45% dei costi complessivi) sono le alluvioni, come quelle avvenute in Germania e Belgio nel 2021 o quella italiana in Emilia-Romagna dello scorso maggio. Ma nel tempo si nota una tendenza all’aumento degli eventi “meteorologici”, come gli uragani e le frane, che coprono circa un terzo dei danni. Infine, per quanto riguarda gli eventi “climatologici”, le ondate di calore sono responsabili del 13% delle perdite totali, mentre l’8% è dovuto a siccità, incendi boschivi o ondate di freddo.

     

Certo, parlare di perdite totali su un periodo di oltre quarant’anni può risultare piuttosto generico e astratto. Ma le ripercussioni del cambiamento climatico sull’economia sono decisamente concrete e attuali. Un caso lampante, di cruciale importanza, è quello del settore energetico. 

Per esempio, la produzione di energia idroelettrica è uno degli ambiti dove gli effetti del cambiamento climatico, e in particolare della siccità, si sono manifestati in maniera più palese nel recente periodo. Un problema che riguarda l’Europa intera, Italia inclusa. Nel nostro paese, il 2022 è stato un anno nero: per la prima volta dal 1954, la produzione annuale di energia idroelettrica non ha superato i 30 TWh. E neppure il 2023 sembra promettere bene: proiettando i dati registrati nei primi sei mesi dell’anno, si ottiene una stima annuale solo di poco superiore a quella del 2022. Che, se confermata, vorrebbe dire che il 2022-23 sarebbe il peggior biennio degli ultimi 65 anni per l’idroelettrico italiano. Un risultato che diventa ancora più scoraggiante se si considera non la produzione assoluta di energia, bensì quella relativa alla capacità produttiva degli impianti. Il 2022 è infatti stato il primo anno di sempre sotto il 50%, e anche il 2023 è ‘sulla strada giusta’ per restare sotto questa soglia. Il che costituirebbe un record storico assoluto in negativo

E i problemi non sono certo limitati all’idroelettrico. Il cambiamento climatico minaccia infatti altre fonti di energia: dall’eolico, il cui funzionamento è messo in pericolo da venti troppo forti, al solare, con gli eventi meteorologici estremi (grandinate e piogge eccessive) che rappresentano un serio pericolo per gli impianti fotovoltaici. Anche se, ed è una notizia positiva da registrare, neppure le forti grandinate in Nord Italia dello scorso luglio sembrano avere avuto un impatto significativamente negativo nella produzione elettrica del fotovoltaico italiano.

     

Tutte queste valutazioni puntano a una sorta di paradosso: sono i cambiamenti climatici a rendere ancora più complicata la transizione energetica verso fonti rinnovabili. E, considerando che l’utilizzo di combustibili fossili è tra le cause principali del climate change, il rischio è che si instauri un circolo vizioso letale per il pianeta. 

Ecco quindi che intervenire in maniera massiccia per arginare i mutamenti climatici diventa una priorità a livello globale ancora più urgente. La domanda è la solita: come si possono attuare misure efficaci, ma anche adeguate, giuste ed eticamente accettabili? In altre parole: a chi spetta il dovere politico di agire? In questo senso, è bene ricordare che le responsabilità climatiche non sono equamente ripartite tra Paesi. Ad esempio, i dati sulle emissioni di anidride carbonica per Paese mostrano che la Cina, da sola, copre quasi un terzo delle emissioni globali. E che le emissioni di Cina, Stati Uniti e Unione europea, da soli, superano la metà delle emissioni del pianeta. 

È tuttavia necessario fare una serie di precisazioni. Innanzitutto, il primato della Cina è piuttosto recente (circa 15 anni a seconda delle diverse stime) e arriva dopo decenni di “dominio” degli stati occidentali. In secondo luogo, l’intera classifica cambia drasticamente se le emissioni vengono calcolate in termini non assoluti, ma relativi alla popolazione o alla ricchezza di ciascun Paese. Inoltre, è doveroso specificare che la Cina ha effettivamente fatto progressi nella direzione della sostenibilità. Lo testimonia il drastico miglioramento ottenuto dagli anni ‘90 ad oggi in due variabili significative per la lotta al cambiamento climatico: il consumo di energia in rapporto al PIL (ridottosi del 45%) e, di qui, le emissioni di CO₂ per ciascun dollaro di ricchezza prodotta (grazie alla rapida installazione di rinnovabili e nucleare, addirittura -75%) E lo ribadisce ulteriormente l’impegno preso da Pechino nel 2020 a ridurre le emissioni assolute a partire dal 2030, fino a raggiungere la carbon neutrality nel 2060. Un obiettivo decisamente ambizioso, seppur in leggero ritardo rispetto al 2050, la soglia indicata dall’UE. Ma sarà sufficiente?

     

Stando a quanto riportato da Climate Action Tracker (CAT), la risposta è un secco e deciso “no”. Secondo CAT, infatti, nessuno stato ha adottato politiche climatiche compatibili con l’obiettivo stabilito nell’accordo di Parigi di limitare a +1,5°C l’innalzamento delle temperature rispetto alle medie preindustriali. E, a fronte di soli dieci Paesi giudicati come “quasi sufficienti” per gli standard di Parigi, la maggioranza del mondo rientra nel novero degli stati “insufficienti” (tra cui Stati Uniti e Unione Europea), “fortemente insufficienti” (la stessa Cina, l’India, l’Arabia Saudita), e “del tutto insufficienti” (Russia, Turchia, Iran). 

Che fare, dunque? Una domanda sempre più pressante che non sembra avere risposte immediate. Da un lato, una notizia positiva: l’impressione è che, nonostante un mondo segnato da crescenti rivalità e sempre più diviso in blocchi contrapposti, ci sia un consenso sempre più ampio sulla necessità di fare qualcosa per arginare il cambiamento climatico. Ma il tempo a disposizione potrebbe essere quasi scaduto. Eppure, non si vedono grandi novità all’orizzonte. La speranza è che la COP28 in programma a Dubai a fine anno possa essere l’occasione non solo per rinnovare la cooperazione multilaterale in campo climatico, ma anche e soprattutto per implementare soluzioni concrete ed efficaci.

     

Leggi "Il futuro dell'acqua", il nuovo longread ISPI

     


A cura di ISPI DataLab


ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale 


Facebook
Twitter
LinkedIn
YouTube
Instagram

Via Clerici, 5 - 20121 Milano

ispi.segreteria@ispionline.it