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21 Giugno 2023

CISGIORDANIA: TAMBURI DI GUERRA

Undici morti in meno di tre giorni, tra israeliani e palestinesi. E aumenta la pressione di chi chiede un’offensiva militare israeliana in Cisgiordania.

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È di quattro coloni israeliani uccisi il bilancio di un attacco messo a segno ieri nei pressi di una stazione di servizio in Cisgiordania. Secondo le ricostruzioni fornite dalla stampa, due palestinesi armati sono entrati nel ristorante della stazione di servizio, alle porte dell’insediamento di Eli, tra Ramallah e Nablus, e hanno ucciso tre coloni israeliani e ferito quattro persone. Quindi sono usciti e hanno colpito a morte un uomo che stava facendo rifornimento. Un altro colono presente sul posto ha aperto il fuoco e ha ucciso uno degli attentatori. L’altro, fuggito in auto, è stato individuato ed ucciso dalle forze militari israeliane (Idf) circa due ore dopo l’attacco. La rabbia degli abitanti dell’insediamento si è quindi riversata nel vicino villaggio palestinese di Huwara e nelle località circostanti, dove la folla ha dato fuoco a campi coltivati, auto e abitazioni. La Mezzaluna Rossa ha riferito di decine di feriti, tra cui diversi ragazzi. L’attacco, messo a segno da Mohannad Faleh Shhadeh, 26 anni, e Khaled Mostafa Sbah, 24 anni, entrambi del villaggio di Urif, avviene a due giorni di distanza da un raid delle forze israeliane nel campo profughi di Jenin. L’operazione, che ha causato sette morti tra cui una ragazzina di 15 anni e 91 feriti, è stata condotta con l’ausilio di decine di blindati e di elicotteri militari Apache che non si vedevano in Cisgiordania dai tempi della Seconda Intifada. Secondo diverse fonti si è trattato di uno dei raid più massicci delle Idf negli ultimi anni, e confermerebbe l’imminente intenzione delle autorità israeliane di lanciare un’operazione militare nei territori occupati.

Verso un’offensiva militare?

Il ministro per la sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir arrivato sulla scena della sparatoria ha invitato “i residenti di Giudea e Samaria a portare armi” che – ha detto – “salvano vite”. Ben Gvir ha chiesto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e al ministro della Difesa Yoav Gallant di lanciare un’operazione militare nella Cisgiordania occupata. “Abbiamo bisogno di ritornare alle uccisioni aeree mirate, abbattere edifici, istituire posti di blocco, espellere i terroristi e approvare la legislazione sulla pena di morte per i terroristi”, ha aggiunto. Netanyahu e il ministro della difesa Gallant si sono riuniti per ore con i comandanti militari e i capi dell’intelligence. Al termine dell’incontro, il premier ha confermato che “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Ma se un’offensiva militare dovesse essere effettivamente lanciata nel nord della Cisgiordania, sarà soprattutto frutto delle pressioni politiche: da mesi gli alleati di estrema destra del primo ministro israeliano chiedono un’operazione su larga scala nel territorio occupato. L’imminente offensiva prenderebbe di mira soprattutto le città di Jenin e Nablus, roccaforti della lotta armata che ormai gran parte dei palestinesi, secondo i sondaggi, considera l’unica via percorribile per mettere fine all’occupazione militare dopo il fallimento di ogni forma di negoziato politico.

Alle radici del malcontento?

L’escalation di questi giorni si inserisce nel contesto di un aumento delle tensioni persino precedente alla nascita della coalizione di governo israeliana che comprende forze di estrema destra. È il frutto avvelenato di diversi fattori concomitanti: la frustrazione di aspettative per i giovani palestinesi; il discredito pressoché totale dei rappresentanti palestinesi e anche l’aggressività crescente di un segmento di popolazione israeliana, in primis coloni ed estremisti di destra, che gode della protezione di partiti ormai affermati sulla scena politica. Nel 2022, le forze israeliane hanno ucciso più di 170 palestinesi, tra cui almeno 30 minori, a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania, in quello che è stato descritto come l’anno più mortale per i palestinesi dal 2006. Dall'inizio del 2023, le forze israeliane hanno ucciso almeno 160 palestinesi, tra cui 26 minori. Gli insediamenti di israeliani, illegali secondo il diritto internazionale (e in alcuni casi anche secondo Israele stesso), ospitano tra i 600.000 e i 750.000 coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme est, e frastagliano la regione in modo da ostacolare una continuità territoriale su cui possa, un giorno, sorgere un futuro stato palestinese. Secondo un rapporto pubblicato mercoledì, quasi la metà dei terreni cisgiordani espropriati per scopi pubblici viene utilizzata solo dai coloni ebrei. I dati mostrano una correlazione tra il numero di ordini di esproprio e l’aumento della costruzione di insediamenti.

   

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Una spirale di tensioni?

Due giorni fa il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, si è espresso in maniera insolitamente dura contro l’espansione delle colonie israeliane nei territori palestinesi, che ha definito “una violazione flagrante del diritto internazionale” e “un ostacolo significativo alla realizzabilità della soluzione dei due stati e al raggiungimento di una pace giusta, durevole e inclusiva”. Anche gli Stati Uniti si sono detti “profondamente turbati” dalla decisione del governo di Tel Aviv di accelerare e facilitare l’iter dei permessi per la costruzione degli insediamenti in Cisgiordania, chiesta a gran voce dai partiti sionisti estremisti che sostengono l’esecutivo. Il tutto nel primo giorno di una settimana cruciale per Israele, in cui il governo di appresta a riprendere l’iter per l’approvazione della contestatissima riforma della Giustizia. Una mossa che rischia di complicare ulteriormente i rapporti tra Washington e Tel Aviv, già particolarmente tesi. E stavolta per il premier Netanyahu potrebbe rivelarsi difficile trovare un compromesso, anche perché ne andrebbe della stabilità del suo governo. Il rischio è che vengano organizzate nuove manifestazioni oceaniche, simili a quelle che nei primi mesi dell’anno avevano paralizzato il paese e che la spirale di violenza, invece di placarsi, possa subire una decisa escalation. 

Il commento 

Di Ugo Tramballi, ISPI Senior Advisor

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"Dopo l'attentato davanti alla colonia di Eli, nei territori occupati, Bibi Netanyahu aveva garantito che “la vendetta” sarebbe stata rapida. Di solito il primo ministro di un paese ritenuto democratico, promette giustizia, non vendetta. E' un segnale della violenza intrinseca al conflitto senza fine tra israeliani e palestinesi. Al caos di Jenin e in altre città palestinesi, Israele continua a dare risposte militari (a volte necessarie), mai politiche. Ancor meno lo si può sperare da questo governo controllato dagli estremisti religiosi. L'Autorità Palestinese che dovrebbe governare le città cisgiordane – gabbie circondate da colonie ebraiche – invece non da' alcuna risposta. Non avrà nulla da dire né qualcosa da fare, anche se la “vendetta” israeliana sarà compiuta."

ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

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